L’energia nella corsa alla Casa Bianca
 
di Guido Massimo DelľOmo

Presidenziali USA 2024

L’energia nella corsa alla Casa Bianca
 

di Guido Massimo DelľOmo

La notizia della non partecipazione del Presidente americano Joe Biden alla COP28 ha riacceso i riflettori sull’impegno degli USA nel rispetto dei target di decarbonizzazione e sulla sensibilità di questo tema nel dibattito interno americano, alla vigilia di una campagna presidenziale che già si preannuncia incandescente.  

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Tra meno di un anno, il 5 novembre 2024, gli americani torneranno alle urne per eleggere il prossimo Presidente, che si insedierà il 20 gennaio 2025. Dubbi e divergenze di varia natura aleggiano sulle prospettive del settore energetico, alla luce dei numerosi provvedimenti adottati dall’amministrazione in carica sul fronte della transizione low carbon. Provvedimenti mirati anche a rilanciare l’industria nazionale, canalizzati in settori centrali per la modernizzazione e l’efficienza dello Stato (infrastrutture in primis), incentivando il Made in USA e creando nuovi posti di lavoro: temi che saranno al centro della campagna presidenziale e che si legano anche, sul fronte esterno, alla competizione con la Cina per il primato tecnologico.

 

Il dado è tratto

Nel 2020, durante le primarie del partito democratico, l’allora ex Vice Presidente Joe Biden propose la sua visione per una nuova politica economica, energetica e industriale: un pacchetto di spesa da $1700 miliardi, conosciuto come Build Back Better, che ha convinto gli elettori democratici più del Green New Deal proposto da Bernie Sanders, che invece prevedeva investimenti per oltre $16 trilioni. Una volta eletto, tuttavia, Biden si è dovuto misurare con un’agenda in parte stravolta dagli eventi: le asperità della ripresa post-Covid, il ritiro convulso dall’Afghanistan, la polarizzazione del Congresso, l’invasione russa dell’Ucraina. In un contesto in cui l’inflazione iniziava a far sentire il suo peso e il tasso di approvazione del Presidente si affievoliva, il BBB perse momentum. Impossibilitato a farlo approvare nella sua interezza, Biden ha dunque optato per uno spacchettamento selettivo dei principali provvedimenti, i quali ad oggi sembrano costituire l’architrave del “nuovo Trilemma” americano: sviluppo, sicurezza nazionale, transizione energetica.

 

Le leggi di Biden

La prima legge ad essere approvata è stata l’Infrastructure Investment and Jobs Act, un pacchetto di investimenti infrastrutturali di $550 miliardi da realizzarsi su un arco decennale, con l’obiettivo di aumentare la competitività del sistema industriale americano. Tra gli interventi previsti, il rinnovamento di strade, ferrovie e trasporti, con grande attenzione all’ammodernamento della rete elettrica, a cui sono destinati $65 miliardi. È seguito, ad agosto 2022, il CHIPS and Science Act ($250 miliardi) per attività di ricerca e sviluppo e produzione di semiconduttori sul territorio Usa, al centro della competizione con la Cina, attraverso tentativi di reshoring o friendshoring e controlli alle esportazioni. L’ultimo tassello per il rafforzamento dell’apparato industriale e infrastrutturale americano è stato approvato dalla maggioranza democratica del Congresso ad agosto 2022: l’Inflation Reduction Act (IRA), che ha autorizzato una spesa di $891 miliardi su dieci anni con l’obiettivo di ricostruire l’economia americana: un imponente programma di investimenti, sussidi e sconti fiscali – che richiama i piani industriali di altre epoche - che unisce gli obiettivi ambientali alla volontà di accrescere il livello tecnologico della manifattura americana creando allo stesso tempo posti di lavoro qualificati sul territorio statunitense. Oltre a espandere significativamente agevolazioni e crediti fiscali a sostegno sia della produzione manifatturiera di tecnologia verde, sia della domanda dei beni prodotti, l’IRA incentiva l’implementazione di una serie di tecnologie energetiche pulite, dal solare all’eolico fino ad arrivare all’idrogeno, ai biocarburanti e alle giga-factories.

 

Hic Rhodus, hic salta

A un anno dalla sua entrata in vigore, si può affermare che l’IRA sia il provvedimento bandiera dell’amministrazione Biden. Per quanto abbia supportato una crescita significativa degli investimenti per la produzione e lo stoccaggio di energia pulita nel territorio statunitense, alcuni settori, come ad esempio l’eolico e i veicoli elettrici (EVs), sono ancora lontani dal raggiungere i target prefissati. In caso di rielezione del Presidente Biden o, più in generale, della permanenza dei democratici alla Casa Bianca, si potrebbe assistere al tentativo di approvare una nuova IRA, in versione 2.0, con l’obiettivo di completare il Build Back Better rafforzando gli investimenti in programmi di formazione per i lavori green, incentivi per la produzione di energia elettrica pulita e un credito d’imposta per i progetti di sviluppo e ampliamento della rete elettrica. I nuovi programmi di incentivi fiscali sarebbero però fortemente ostacolati, particolarmente in Senato: ad oggi, infatti, lo scenario più probabile è che i Repubblicani riconquistino il Senato e i Democratici si riaffermino invece alla Camera. Per questo un’amministrazione Democratica si concentrerebbe probabilmente sull’accelerazione delle autorizzazioni per i progetti rinnovabili (permitting reform) e sull’introduzione di meccanismi di adeguamento del carbonio alle frontiere (carbon border adjustment).

 

E se vincesse un Repubblicano?

Cosa accadrebbe, all’opposto, in caso di vittoria di un Repubblicano? Come accennato, l’IRA è un programma che per esprimere il suo potenziale prevede una durata di dieci anni e la prossima amministrazione giocherà un ruolo chiave nella sua realizzazione. La vittoria di un Repubblicano alle presidenziali 2024 potrebbe mettere un freno a incentivi e tax credits, come dimostrato dal tentativo di diversi repubblicani al Congresso di abrogare molte delle disposizioni chiave della legge, di cui difficilmente si vedrebbe una seconda versione. Il che rischierebbe di allontanare ulteriormente gli Usa dal raggiungimento dei target climatici, che prevedono una riduzione delle emissioni del 50-52% entro il 2030 sul 2005. Secondo un’analisi pubblicata dal gruppo di ricerca Rhodium Group, l’attuazione dell’IRA contribuirebbe ad una riduzione di emissioni di gas serra prodotti dagli Usa di circa il 42%, mentre in caso di mancata implementazione del provvedimento la riduzione si attesterebbe solamente al 26%.

 

Il fattore Cina

Al di là della retorica incendiaria che caratterizzerà la campagna elettorale, non è scontato tuttavia che anche i Repubblicani possano avere ripensamenti: secondo uno studio di Bloomberg, gli stati a guida repubblicana sono quelli che hanno maggiormente beneficiato dall’IRA, inducendo governatori e cittadini a giudicarlo in modo sempre più positivo. Per questo è probabile che un eventuale impeto “abrogatore” si concentri sulle misure dell’IRA più strettamente legate al clima (e quindi più polarizzanti) come il Greenhouse Gas Reduction Fund, che prevede $27 miliardi per combattere la crisi climatica, e l’incremento delle imposte su attività O&G. In entrambi gli schieramenti, inoltre, si fa strada la consapevolezza che gli investimenti previsti dall’IRA siano anche molto utili ad accrescere la competitività degli Stati Uniti rispetto a Pechino, tema che nella crescente complessità del quadro internazionale ha un peso crescente. I rapporti con la Cina, infatti, costituiscono una delle poche priorità strategiche condivise a livello bipartisan, in una arena politica altrimenti sempre più polarizzata. Una relazione competitiva, con radici profonde e destinata a persistere nel tempo, che oggi più che mai pone l’accento sulle filiere produttive ad alto valore aggiunto, sull’innovazione, la corsa alle materie prime per la transizione e le tecnologie del futuro. Tutti ambiti che vedono al momento la Cina ben posizionata, se non in vantaggio rispetto a Washington. Uno dei dossier destinato a rimanere in cima all’agenda degli Stati Uniti a prescindere dal colore politico del prossimo Presidente.