Geopolitica
Buon 1973!
La prossima decade, come gli anni ’70, sarà un periodo politicamente agitato, conflittuale e inflattivo. Gli equilibri geopolitici traballano con la revisione del modello globalizzato che ci ha accompagnato per decadi. Nasceranno probabilmente blocchi ed isole economiche, non differenti da quelli di 50 anni fa
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l 24 febbraio 2022 l’orologio della storia ha mosso le lancette all’indietro di 50 anni. Tre minacce, apparentemente sconfitte nel corso degli anni 80-90, hanno ripopolato i titoli di giornale: l’inflazione a due cifre, la crisi energetica e la minaccia nucleare. Per alcuni decenni abbiamo costruito un mondo idealizzato che, aprendosi al commercio globale, al successo tecnologico e digitale e ad un percorso di collaborazione internazionale pareva destinato a porsi sfide diverse. Ogni tanto si sbandava forte (le torri gemelle, la crisi Lehman o le primavere arabe), ma quei tre nemici storici apparivano sdentati.
Il mondo idealizzato
Sull’inflazione, ad esempio, occorreva creare un lieve stato febbrile, attorno al 2 percento, dopo anni di prezzi fermi o, peggio, tendenti al ribasso. Un esercizio che in Giappone era risultato quasi impossibile dal 1990 in poi. E in Europa appariva altrettanto complicato. Smantellare vecchie istituzioni della guerra fredda come la NATO sembrava una naturale conseguenza di una visione pacifica delle relazioni internazionali, dove l’interesse economico e commerciale prevaleva sempre su quello territoriale, o del disimpegno internazionale americano. Appena nel 2019 Macron postulava la “morte cerebrale” del patto atlantico, un’istituzione senza leadership e direzione. E sull’energia si configurava una nuova era rivoluzionaria: cambiare in trent’anni il mix creato negli ultimi 300! Dopo gli accordi di Parigi nel 2015 le prospettive di un nuovo mondo, sempre più elettrico, digitale e green apparivano oramai imminenti. Un’era in cui i combustibili fossili erano un retaggio rumoroso e inquinante delle prime rivoluzioni industriali, incompatibili con la pulizia e il decoro del moderno capitalismo woke.
Il Covid, pur catapultandoci in una realtà medievale di quarantene e di untori, aveva paradossalmente promosso questa lettura: barricati in casa, avevamo testato la fattibilità di una economia a kilometro zero, tutta digitale nelle relazioni professionali e personali e accumunata da una globale e nobile causa, la corsa al vaccino. Il ritorno della natura (i delfini a Venezia!), una vita più bilanciata e locale evidenziavano come fosse possibile resettare il nostro modello economico. Avevamo gli strumenti per farlo e avevamo realizzato in pochi giorni il test di applicazione. Ovviamente si ometteva il gigantesco costo economico dell’esperienza, che aveva portato governi e banche centrali a stampare moneta come mai nella storia. Un modello in cui molti settori erano costretti a serrare i battenti in attesa delle riaperture. Un’economia infartuata, senza emissioni perché immobilizzata e tenuta in vita dagli “Helicopter money”.
Un reset diverso da quello previsto
E quando dal 2021 i cancelli della libertà si sono riaperti abbiamo testato le reali condizioni del reset: non eravamo entrati nel mondo lieve, verde, pacifico e digitale che ci avevano dipinto ma eravamo bruscamente tornati indietro agli anni ’70. Un mondo parcellizzato, conflittuale ed inflattivo. Fisico ed estrattivo, pieno di code (agli aeroporti e sulle tangenziali) e colli di bottiglie. Il mondo pre-Covid sembrava quasi ordinato al confronto. E comunque l’antitesi della economia del click che avevamo vissuto con la pandemia.
Le prime evidenze del nuovo paradigma sono emerse sulla catena logistica, con la mancanza di materiali e beni che sembrava naturale ricevere in poco tempo. Mentre sognavamo le consegne con i droni, scoprivamo come il derapage della Ever Given poteva interrompere il Canale di Suez.
Ritardi nei cantieri, soprattutto asiatici alle prese con i lockdown estremi, carenza di personale e ritardi produttivi su materiali e materie prime sono le condizioni del cosiddetto “everything shortage” dei nostri tempi.
Il nuovo mondo porterà molti fenomeni di trasformazione strutturali tra loro collegati: la necessità di un nearshoring delle attività economiche, per ridurre i rischi di consegna, sarà all’origine di un aumento permanente dei costi dei beni e servizi con la minore disponibilità di prodotti “Made in China”. E riporterà vicino a noi consumatori occidentali certe fabbriche emissive che abbiamo opportunamente spostato ad oriente. Addio alla ricetta “meno inflazione e meno emissioni” delle politiche orientate alla globalizzazione.
A questa dinamica prettamente economica il 2022 ha aggiunto, in maniera inattesa, la frattura geopolitica. Per anni abbiamo dato per scontato che le attività industriali potessero essere allocate al meglio senza altre negatività. In Occidente, poche industrie leggere e molto servizi; nel resto del mondo, le estrazioni e le trasformazioni più pesanti. Da febbraio di quest’anno abbiamo evidenza che i flussi energetici e di materiali strategici come i chip dovranno essere ripensati. Che le dipendenze dal 90 percento delle terre rare processate in Cina o dal 60 percento dei processori di Taiwan e dal 40 percento del gas russo sono potenziali bombe a tempo. Anche da queste rilocalizzazioni o dall’identificazione di nuove forniture nasceranno pressioni inflattive importanti e strutturali.
Lo stallo dell’energia
Ed infine anche l’energia, la materia più trascurata degli ultimi anni, uscirà trasformata dagli eventi in corso.
Intrappolati in una narrativa anti-fossile (e non anti-carbonio come dovrebbe invece essere) abbiamo deliberatamente limitato le opzioni di trasformazione a poche fonti (rinnovabili, no nucleare) ed usi (focus sulla elettrificazione spinta), e ci troviamo in un angolo. Da una parte dobbiamo produrre più petrolio e gas (ed usare più carbone almeno di inverno) per sostituire gli enormi volumi di idrocarburi russi mancanti, ma non accettiamo che queste attività possano durare troppo a lungo perché eretiche rispetto alla narrazione anti-fossile. Ne consegue che oggi si rimane in stallo, con aumenti dei prezzi che non si scaricano in maggiori investimenti e più produzione di petrolio e gas.
Allo stesso tempo l’opzione “produrre più rinnovabili per sfuggire alla crisi” (di sua natura già insufficiente a coprire i consumi totali, industriali ed invernali) orienterebbe le forniture ad una crescente dipendenza dalla Cina. E subirebbe inoltre gli effetti negativi dei rincari delle materie prime e delle energie fossili che sono necessarie per produrre l’acciaio, le plastiche e il vetro alla base delle stesse pale eoliche o pannelli solari.
In conclusione, il 2023 confermerà il progredire del nuovo paradigma. Un reset annunciato, ma molto diverso da quello concepito. La prossima decade, come gli anni ’70 sarà un periodo politicamente agitato, conflittuale e inflattivo. Gli equilibri geopolitici sono in movimento con la revisione del modello globalizzato che ci ha accompagnato per decadi. Nasceranno probabilmente blocchi ed isole economiche, non differenti da quelli di 50 anni fa. Ed attorno all’energia si sconterà la schizofrenia di una narrativa troppo bella da abbandonare e della sua dolorosa impraticabilità. In assenza di un rapido cambio di rotta lo shock energetico che sta dominando il gas potrebbe presto coinvolgere altre fonti a noi essenziali.
Buon anno, buon 1973!