Miti e potere nel grande norddi Marzio G. Mian
64

Il destino dell'Artico

Miti e potere nel grande nord

di Marzio G. Mian

Dalle prime esplorazioni russe alle ambizioni imperiali degli Stati Uniti, l’Artico è stato un crocevia di strategie geopolitiche. Oggi, la fusione dei ghiacci e l’accesso alle risorse riaccendono le rivalità tra le grandi potenze, ridisegnando un nuovo Grande Gioco 

16 min

C

i piaceva l’idea che esistesse un posto così: disabitato, immacolato, senza Storia, dove le cose sono sempre state come sono - una parte del Pianeta ibernato in una primordiale purezza. Un’idea che nasce dal bisogno d’altrove, dalla speranza che vi sia infine un luogo diverso, una possibilità di fuga dal contemporaneo, un’ultima Thule al riparo dalla prepotenza del progresso. Naturalmente non era vero, l’Artico non era disabitato, né immutabile. Ha conosciuto trasformazioni, susseguirsi di civiltà, invasioni, battaglie, migrazioni dovute ai cambiamenti climatici, come nel resto del mondo. Però, se l’Artico è sempre mutato, ora sta affrontando una trasformazione travolgente, in gran parte a causa dell’attività umana. Nei miei libri, frutto di molti reportage sul campo, lo chiamo il Nuovo Artico, oppure un Nuovo-Nuovo Mondo entrato improvvisamente nella grande Storia umana, com’era accaduto con la scoperta dell’America. Tanto che questo – lo sostengono ormai molti studiosi – sarà il “secolo dell’Artico”.

 

Nel momento in cui il resto del globo è sovraffollato, sempre più desertificato e affamato di risorse, ecco che si presenta questa epocale opportunità: un nuovo oceano – 1,5 volte più grande degli Stati Uniti - una nuova regione, insomma un nuovo continente che è quasi disabitato, sempre più abitabile e custode di quelle risorse che servono a far andare avanti le economie e le società moderne, circa il 30 percento di quelle materie prime non ancora sfruttate nel Pianeta. Di più: sulla calotta le rotte marittime (e dei cable digitali) sono la scorciatoia ideale per collegare porti e mercati tra Oriente e Occidente. Ovvio che la contesa sia feroce, spietata. E che si profilino potenziali scenari di guerra.   

 

la fotoGli Inuit, popolo indigeno dell’Artico, abitano le regioni settentrionali di Canada, Groenlandia e Alaska, adattandosi a uno degli ambienti più estremi del pianeta con tradizioni millenarie

 

 

La febbre bianca della Russia 

In Russia non sono stati presi in contropiede. È la potenza storica dell’Artico. Il Grande Nord è la loro stella polare, “febbre bianca” la chiamano. La prima spedizione partì subito dopo l’anno Mille, dal principato di Novgorod verso il Mare di Kara. Lì comincia l’avventura russa, con il mito dei pomory, ex contadini che si rifondano in un popolo di navigatori artici: sono loro che dalle sponde del Mar Bianco in un paio di secoli arrivano all’arcipelago di Novaja Zemlja e a quello di Spitzbergen. Nel Cinquecento aprono rotte commerciali con la Norvegia a Ovest e arrivano a oriente fino allo stretto di Bering e in America. Sono i battistrada del Passaggio a Nord Est – seimila chilometri lungo le coste russe – oggi chiamato Northern Sea Route oppure Via della Seta polare per la Cina, per cui l’Artico è diventato in pochi anni una priorità strategica e commerciale.  

 

Pietro il Grande, ossessionato dall’Artico come lo saranno Stalin e Vladimir Putin, costruisce ai primi del Settecento la prima flotta del Nord, radica su quelle coste il progetto della Grande Russia. Inaugura i gulag, che con Stalin saranno sviluppati su scala industriale. È stato l’Artico sovietico a dare l’imprinting all’Artico che oggi è il baricentro militare, economico, energetico e ideologico di Putin. “È il suo bancomat”, mi ha detto un consigliere del dipartimento di Stato a Washington. Putin risolleva le sorti economiche della Russia nei primi anni Duemila grazie all’impennata delle materie prime, cioè grazie ai pozzi di petrolio e gas dell’Artico, che rappresentano tutt’oggi circa il 50 percento del PIL russo. E ripristina i bastioni della Guerra Fredda, inaugurando decine di nuove basi militari, aeree e navali. Quasi la metà delle oltre seimila testate nucleari russe (e i missili ipersonici di ultima generazione) si trovano assiepate nella regione di Murmansk, tra il Mar Bianco e la penisola di Kola, a ridosso della Norvegia e della Nato sul Mare di Barents, che è oggi lo spazio marittimo più “caldo” dell’Artico. A partire dalle Isole Svalbard, la cui sovranità norvegese è regolata da un trattato del 1926 che appare sempre più fragile, messo sotto tiro dalle rivendicazioni e dalle provocazioni russe nell’arcipelago e in tutto il Mare di Barents, dove Oslo concentra la sua ricchezza petrolifera (oltre che ittica) e la sua strategia di sicurezza.  

 

la fotoBambini Inuit giocano a hockey su ghiaccio per le strade congelate di Gjoa Haven, Canada

 

 

L’Artico europeo 

Nonostante la secolare tradizione polare – un’epopea resa mitica dalle esplorazioni di Fridtjof Nansen e Roald Amundsen – la Norvegia ha solo recentemente, e cioè come reazione alla prepotente militarizzazione russa, avviato una dottrina artica rafforzando la partnership con la NATO e soprattutto con Finlandia e Svezia, entrati nell’Alleanza dopo l’invasione dell’Ucraina.  

 

L’Artico “europeo”, dunque. Che ebbe la sua stagione coloniale quando la Danimarca, trecento anni fa, non cercò il suo posto al sole in Africa, ma sfogò gli appetiti di dominio lontano dalla mischia, nel freddo, inospitale, remoto Grande Nord: Islanda, Isole Faer Øer e Groenlandia, l’isola non continentale più grande del mondo, che tuttora rappresenta il 98 percento del Regno di Danimarca, anche se dal 1979 è un territorio autonomo e anche se dal 2009 ha ottenuto il diritto di autodeterminare la sua piena indipendenza. Con la crescente centralità strategica della regione, Copenaghen si trova però di fronte a terribili dilemmi: perdere completamente la Groenlandia, per la piccola Danimarca, significa perdere un grande asset geopolitico e geologico, visto l’immenso patrimonio minerario di questa sorta di “Congo boreale”. Un ruolo che la fa sedere al Consiglio artico e che le conferisce peso nell’Unione europea, perché solo grazie ai danesi la preziosa Groenlandia può rimanere agganciata a questa parte dell’Atlantico.

 

Tuttavia, per il Regno è complicato – in tempo di generale autocritica del colonialismo – far valere diritti storici, perché tutto è collegato: lo scioglimento del ghiaccio porta alla luce anche il passato e recriminazioni su una presenza danese che fu devastante per gli inuit: recenti inchieste hanno rivelato come fino agli anni Settanta Copenaghen avesse messo in atto una campagna di sterilizzazione delle ragazzine indigene per abbattere la natalità e quindi il budget dell’assistenza sociale. Un passato che spinge i groenlandesi verso una piena emancipazione, utilizzando le ricchezze come biglietto per la libertà. Ma non è facile determinare il proprio destino per i 57 mila abitanti dell’isola, perché siamo appunto nel secolo dell’Artico. E – dopo l’invasione dell’Ucraina e l’avvio della nuova presidenza di Donald Trump – siamo entrati improvvisamente in un’epoca dove gli appetiti territoriali e la legge del più forte non sono più un tabù. Sulla Groenlandia pesa infatti un altro passato, quello delle mire americane, che esistono da molto prima dell’offensiva (per ora) verbale di Trump.  

 

 

Le mire degli USA, una storia antica 

Se gli Stati Uniti in anni recenti hanno tentennato di fronte alla crescente e aggressiva presenza russa e cinese nella regione, hanno però sempre coltivato una proiezione artica. A partire dall’acquisizione dell’Alaska nel 1867 dallo zar Alessandro II: un affare che ha fatto storia, due cents per acro, 125 milioni di dollari attuali per un territorio grande quasi sei volte l’Italia. Eppure, quando il presidente Andrew Johnson firmò l’assegno, la stampa americana dell’epoca lo rimproverò d’aver sperperato denaro pubblico per assicurarsi il ghiaccio per i suoi frequenti drink. Poi l’Alaska è diventata la terra dell’oro e un enorme serbatoio energetico. Ma soprattutto ha trasformato la giovane e ambiziosa nazione, che aveva appena conquistato il West fino al Pacifico, in una nazione artica. Dietro all’operazione c’era il segretario di Stato William H. Seward, interprete dell’espansionismo americano basato sull’acquisto di nuove terre: “Costa molto meno che fare una guerra”, scriveva. Solo un anno dopo aver inglobato l’Alaska, Seward è incaricato d’avviare perizie per l’eventuale acquisto di due colonie danesi, Islanda e Groenlandia. Su quest’ultima l’inviato Benjamin Peirce riferisce che si tratta di un “paradiso geologico”, in particolare per la presenza massiccia di criolite, minerale necessario per produrre alluminio, all’epoca più prezioso dell’oro. Ma la cifra richiesta dai danesi è scoraggiante.

 

la fotoMadre e figlia in abiti tradizionali sull’Isola di Baffin, Nunavut, Canada

 

 

Prima delle proposte indecenti di Trump, nel primo mandato e al principio del secondo, ci aveva provato Herry Truman nel 1946, all’alba della Guerra Fredda per la portata strategica dell’isola polare: da un cassetto dello Studio Ovale tirò fuori una busta con un assegno di cento milioni di dollari, ma il Premier danese rifiutò. A Copenaghen già sapevano che sotto quel blocco di ghiaccio si nascondeva un tesoro. Concesse però agli Stati Uniti il diritto d’impiantare basi militari e d’istallare testate atomiche nei bunker sotto la calotta (in cambio di una partecipazione quasi a costo zero della Danimarca alla NATO). Da allora la Groenlandia è stata di fatto occupata militarmente dagli Stati Uniti. Dalla base di Thule, per dire, quasi a ridosso del Polo Nord, è stata gestita la cattura di Saddam Hussein nel deserto iracheno. La Groenlandia è stata una priorità pure durante l’Amministrazione Biden, anche se non sbandierata alla maniera di Trump. Washington ha aperto una sede diplomatica a Nuuk, la lillipuziana capitale degli inuit.

 

È stata “incoraggiata” la concessione di esplorazioni minerarie a società americane e l’avvio di uno sfruttamento di terre rare nell’est, gestito da una compagnia intestata a Bill Gates e Jeff Bezos. In un paio d’anni gli USA hanno scalzato la presenza cinese nell’isola, sono state fatte pressioni su Copenaghen perché venissero bloccate alcune concessioni di miniere di terre rare e uranio ad aziende legate a Pechino, così come alle imprese cinesi è stato sfilato l’appalto di due nuovi aeroporti per ragioni di “sicurezza nazionale”. Conta molto il sottosuolo, ma conta tantissimo la geografia: la Groenlandia è ritenuta cruciale per il Pentagono, e basta osservare il mondo dall’alto per capire che la traiettoria più breve di un eventuale lancio di missili russi dalla regione di Murmansk verso gli Stati Uniti passerebbe sopra quel candido corpaccione. La Groenlandia incrocia anche con le rotte marittime polari, comprese quelle sottomarine che collegano il Mare di Barents al Nord Atlantico.   

 

A parte qualche cannonata tra baleniere – ai tempi in cui il grasso dei cetacei determinava gl’indici della borsa di Londra – l’Oceano polare non ha mai conosciuto la guerra guerreggiata. Certo, l’Artico è stato lo scenario estremo dove s’è combattuta – senza mai sparare un colpo – la Guerra Fredda, epici inseguimenti tra sommergibili nucleari, come il gatto col topo – tipo Caccia a Ottobre Rosso. “Noi e i russi allora abbiamo mappato i fondali”, mi diceva ancora nel 2018 l’ammiraglio statunitense James Stavridis, già comandante supremo delle Forze armate in Europa: “Ma conosciamo ancora solamente il 15 percento del fondo di quell’oceano, sappiamo molto di più dei crateri lunari e dei vulcani di Marte”. L’ammiraglio prevedeva che quell’eccezionalismo artico, il tabù della guerra, aveva i giorni contati. Uno spirito che era stato indicato da Michail Gorbaciov nel 1987, con il celebre discorso pronunciato davanti ai marinai della Flotta del Nord, ma perché Ronald Reagan intendesse, auspicando il disarmo dei missili a medio raggio dispiegati in Artico: “Facciamo del Polo un polo di pace”. L’High North come santuario di cooperazione.  

 

 

La nascita del Consiglio artico 

Il Consiglio artico, quando nacque nel 1996, era poco più d’una dichiarazione di buoni e pacifici intenti tra gli otto Paesi affacciati sull’oceano polare – oltre a Russia e USA, Canada, Norvegia, Islanda, Danimarca, Svezia e Finlandia – che si proponevano di ritrovarsi allo stesso tavolo per collaborare sulle questioni ambientali, sulla navigazione e sui diritti delle popolazioni indigene. Non sulla sicurezza, perché non si trattava d’una organizzazione internazionale, ma d’un forum intergovernativo. Per diversi anni nessuno s’accorse dell’esistenza del Consiglio artico, poi, man mano che il ghiaccio si fondeva, e cominciavano a circolare le stime delle ricchezze accessibili e s’annunciavano rotte artiche alternative a Suez e Panama, allora sono arrivati i pezzi grossi, ministri degli Esteri, da Sergej Lavrov a Hillary Clinton. E i paesi che volevano contare sulla scena mondiale facevano a sportellate per essere ammessi come osservatori del club boreale, in primis la Cina, ma pure l’Italia.

 

Lo spirito di Gorby ha retto anche con l’annessione della Crimea, ma non all’invasione dell’Ucraina. Sette paesi artici hanno chiuso ogni collaborazione con la Russia, titolare del 52 percento delle coste polari. L’Artico s’è spaccato in due e s’è rotto il tabù della guerra – “high North, high tension” è il nuovo refrein.  Anche perché con l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, il Consiglio artico è interamente euro-atlantico e perché s’è andata rafforzando l’alleanza “senza limiti” tra Russia e Cina, sia dal punto di vista economico-energetico (Pechino nell’Artico russo è subentrata alle compagnie occidentali ritiratesi con le sanzioni) che da quello militare, addirittura con manovre navali congiunte nello stretto di Bering, davanti all’Alaska. Se per l’Artico c’è stato un prima e un dopo l’aggressione russa dell’Ucraina, ora siamo assistendo ad una nuova, imprevedibile accelerazione nel Grande Gioco del secolo con gli accordi economici tra Trump e Putin: nei colloqui di Riad, come precondizione per avviare trattative di pace in Ucraina, Russia e Stati Uniti hanno messo sul tavolo i reciproci interessi estrattivi e di sicurezza nel Grande Nord. Chiaro che la partita per ridisegnare l’ordine mondiale si gioca lassù, nel Nuovo Artico.