L’imprevedibilità di “the Donald” 

La presidenza Trump ridefinisce il ruolo degli Stati Uniti: meno vincoli internazionali e priorità agli interessi nazionali. Tra tensioni globali e alleanze instabili, emergono interrogativi sul futuro degli equilibri internazionali e sul rapporto USA-UE

La presidenza Trump ridefinisce il ruolo degli Stati Uniti: meno vincoli internazionali e priorità agli interessi nazionali. Tra tensioni globali e alleanze instabili, emergono interrogativi sul futuro degli equilibri internazionali e sul rapporto USA-UE

di

Mario De Pizzo

“I

mprevedibile”. È la parola più gettonata tra gli analisti di tutto il mondo per definire il profilo e il progetto politico del quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti: Donald Trump. Il suo vice, J. D. Vance, commentando a caldo, la sera della vittoria, ripeteva: “Abbiamo realizzato il più grande ritorno della storia”. Per provare a comprendere cosa significhi la vittoria di Donald Trump bisogna anzitutto partire dai dati. La sera del cinque novembre oltre il collegio dei grandi elettori, Trump ha conquistato anche il voto popolare, con circa 5milioni di preferenze in più della sua competitor, Kamala Harris.   

 

Il candidato repubblicano ha vinto in tutti e sette gli Stati in bilico. Dal Michigan alla Pennsylvania, la frontrunner democratica ha raccolto meno voti di Joe Biden nel 2020. Se ci si sofferma sul consenso delle minoranze, Harris ha ottenuto il voto di sei elettori ispanici su dieci e di otto elettori afroamericani su dieci– comunque in calo rispetto a Joe Biden. La vittoria di Trump si può dunque definire come un’affermazione chiara, costruita essenzialmente su due temi: il contrasto all’immigrazione illegale e la lotta all’inflazione. Sebbene i fondamentali dell’economia americana siano ottimi (il PIL del 2024 segna un +2,8 percento), il costo della vita è una esternalità che neanche gli interventi massivi dell’amministrazione Biden – come l’Inflaction Reduction Act – sono riusciti a tenere a bada. Il senso diffuso di insicurezza sociale ha orientato gli elettori verso una proposta che non fosse identificabile con il governo uscente. 

 

 

L'AFFERMAZIONE DI TRUMP alle presidenziali del 5 novembre scorso è stata netta : oltre al collegio dei grandi elettori, il tycoon ha conquistato anche il voto popolare con circa 5 milioni di preferenze in più della sua avversaria, Kamala Harris

 

 

La notte delle elezioni, Donald Trump ha tenuto un lungo discorso, che diversi opinionisti hanno valutato con uno stile “più istituzionale” rispetto alle attese. Tra i passaggi più rilevanti, il caloroso ringraziamento ad Elon Musk: “è nata una stella” ha detto di lui il Presidente eletto. Nei giorni seguenti, il team della transizione ha annunciato che il fondatore di Tesla sarà coinvolto nell’amministrazione come responsabile dell’efficienza governativa. Tra le altre nomine annunciate, quella del senatore Marco Rubio, come segretario di Stato.  

 

 

Con lo slogan 'Make America Great Again' il candidato repubblicano si è aggiudicato tutti e sette gli Stati in bilico

 

 

 

La fine dell’eccezionalismo americano? 

“L’imprevedibilità” potrebbe essere la cifra anche della politica estera di Donald Trump. Diversi osservatori, scommettono che il Presidente repubblicano possa innescare una dinamica transattiva nelle relazioni internazionali, con una bussola: l’interesse nazionale degli Stati Uniti, al di sopra di tutto. Da tempo, già dall’amministrazione Obama, gli USA hanno cominciato ad abdicare alla funzione di “gendarme del mondo”, risolutore di crisi e conflitti. L’icona di questo processo è il drammatico ritiro dall’Afghanistan, annunciato da Donald Trump e realizzato da Joe Biden ad agosto 2021. Nonostante questo percorso, gli Stati Uniti restano l’architrave dell’ordine liberale, che ha retto i fragili equilibri mondiali dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Un assetto che il cosiddetto “Asse degli Aggressori” – ovvero Cina, Russia, Iran e Corea del Nord – mira a stravolgere, superando l’egemonia occidentale.  

 

Come ha scritto Daniel W. Drezner su Foreign Affairs, la presidenza Trump potrebbe rappresentare la fine dell’eccezionalismo americano. La fine, cioè, di quella missione iniziata con la presidenza di Harry Truman e che ha portato gli Stati Uniti a rappresentare e perseguire in tutto il mondo – oltre che il proprio interesse nazionale – ideali di democrazia e libertà. 

 

 

“L’imprevedibilità” potrebbe essere la cifra anche della politica estera di Donald Trump

 

 

Nel corso della campagna elettorale, Donald Trump ha definito i dazi tra le espressioni più belle del vocabolario. Il suo programma prevede una tariffa del 100 percento sui beni Cinesi e del 10 percento sui prodotti provenienti dal resto del mondo e quindi anche dall’Unione Europea. Durante il primo mandato, ha più volte esortato i partner della NATO – come del resto anche altri Presidenti democratici – ad aumentare le spese per la Difesa, almeno al 2 percento del PIL. Anche il solo agitare questi argomenti potrebbe produrre dei risultati. Gli Stati Uniti potrebbero quindi ottenere il riequilibrio della bilancia commerciale con l’UE, senza applicare affatto o in misura ridotta, i dazi sui suoi prodotti.  

 

Per quanto riguarda la politica estera, Trump potrebbe richiamare il cosiddetto principio “Peace through Strenght”, mostrare la forza per ottenere la pace. Strategia che ha guidato diversi presidenti USA e che negli anni Ottanta, Ronald Reagan ha fatto propria nella stagione finale della guerra fredda con l’URSS.  E che ora potrebbe ispirare anche l’approccio degli Stati Uniti in Medio Oriente e per fronteggiare l’aggressione russa all’Ucraina. 

 

 

La linea della nuova amministrazione su Mosca 

Pochi giorni dopo le elezioni americane, il Wall Street Journal ha pubblicato indiscrezioni su un piano di armistizio tra Mosca e Kijev. Il progetto prevederebbe di cristallizzare la situazione sul campo, attribuendo alla Russia i territori occupati a partire da febbraio 2022, oltre alla Crimea. Una forza di interposizione europea farebbe da deterrente a nuovi tentativi di aggressione e l’Ucraina rinuncerebbe per vent’anni all’ingresso della NATO, in cambio della fornitura di armi per difendersi da eventuali attacchi. 

 

 

La vittoria di Trump si può definire come un’affermazione chiara, costruita essenzialmente su due temi: il contrasto all’immigrazione illegale e la lotta all’inflazione

 

 

È difficile prevedere se questa sarà effettivamente la linea della nuova amministrazione. La bussola a cui guardare è l’effettivo e contingente interesse degli Stati Uniti. Può Washington avallare un cessate il fuoco che scontenti Europa ed Ucraina e faccia percepire Putin – supportato militarmente anche dalla Cina (almeno con tecnologia duale), dall’Iran (con fornitura di missili balistici), dalla Corea del Nord (con truppe sul campo) – come vincitore?   

 

Per quanto riguarda l’energia, sappiamo già che la nuova amministrazione intende ritirarsi dagli accordi sul clima di Parigi. “Drill, baby Drill” ha detto Donald Trump durante la campagna elettorale, per chiarire che intende favorire l’estrazione di combustibili fossili. Del resto, anche Kamala Harris aveva detto di non voler vietare il fracking. Facile immaginare politiche di rottura con il green deal di Joe Biden; il contrasto al cambiamento climatico sarà un banco di prova per i rapporti tra il nuovo inquilino della Casa Bianca e gli organismi internazionali. 

 

Difesa, industria e competitività, innovazione tecnologica e ambiente saranno infine i punti cardinali su cui misurare la qualità delle relazioni tra Washington e Bruxelles.