Industria per la transizione, opportunità e prospettive
Alla ribalta
La CCS è una tecnologia indispensabile per decarbonizzare i settori industriali a più alte emissioni. Indipendentemente dagli ostacoli presenti, una cosa è chiara: l’integrazione di questa tecnologia è necessaria
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pesso parlare di lotta al cambiamento climatico è sinonimo della necessità di ricorrere maggiormente all’energia pulita. La realtà dei fatti, tuttavia, è che per alcuni settori industriali rimane difficile abbattere le emissioni nonostante negli ultimi decenni vi siano stati notevoli progressi nella generazione di energia pulita, senza contare l’impiego di tale energia per decarbonizzare i settori in cui l’elettricità rappresenta un input importante. Per quanto ancora fumoso, il concetto di “hard-to-abate” è in genere applicato ai settori in cui l’elettrificazione e i miglioramenti dell’efficienza energetica non sono opzioni di decarbonizzazione praticabili o sufficienti (sia ciò da un punto di vista tecnico, finanziario o entrambi) e in cui serve un’intensa opera di decarbonizzazione per raggiungere realmente l’obiettivo dello zero netto. Tali settori comprendono le industrie pesanti che si occupano per esempio della produzione di ferro e acciaio, di cemento e prodotti chimici, così come i comparti dell’aviazione e del trasporto marittimo, che rappresentano complessivamente circa il 30 percento delle emissioni globali di CO2.
Le sole industrie produttrici di ferro, acciaio e cemento contribuiscono a circa i 2/3 di queste emissioni (pari al 20 percento a livello globale), dal momento che i processi utilizzati richiedono temperature molto elevate, ottenibili dalla combustione del carburante e non facilmente raggiungibili con l’impiego di elettricità. Per questi settori, gli sforzi per ridurre le emissioni di CO2 possono assumere diverse forme e si spazia dalla riduzione della domanda e dall’aumento dei tassi di riciclaggio, passando per la sostituzione dei combustibili fossili con combustibili puliti alternativi come l’idrogeno verde e terminando con la cattura e l’eliminazione della CO2 attraverso la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS). Ciò vale soprattutto nella produzione di cemento, dove le emissioni di CO2 sono intrinseche al processo stesso (il 70 percento rappresenta “emissioni di processo”) e non possono essere mitigate in altro modo con l’elettricità pulita.
Questo rende la tecnologia CCS non solo un’opzione, ma una necessità
Infatti, sono circa 30 i progetti CCS attualmente in corso nel settore del cemento a livello globale, in primis in Europa. Parallelamente, l’industria del cemento continua a perseguire la produzione e l’uso di materiali di input alternativi e innovativi a basse emissioni di carbonio, ma appare sempre più evidente che la CCS svolgerà un ruolo di primo piano nella decarbonizzazione del settore, quantomeno nel breve-medio termine. Ciò va in contrasto con le previsioni riguardanti l’industria siderurgica, per la quale la CCS non sembra essere così rilevante – almeno non direttamente – e questo nonostante più della metà della produzione globale di acciaio provenga dalla Cina, dove il grosso della produzione (>80 percento) si avvale di altiforni a carbone che possono essere decarbonizzati solo attraverso la CCS oppure passando a materiali di partenza più puliti. L’esistenza stessa di diverse fonti di emissione di CO2 nel processo di produzione dell’acciaio prova la necessità di utilizzare la CCS in maniera selettiva nel punto con emissioni più elevate (ossia l’altoforno); nel migliore dei casi, consente di ridurre le emissioni complessive del 50-60 percento.
Inoltre, le concentrazioni di CO2 nei gas di scarico sono relativamente basse (10-30 percento) tanto nella produzione di acciaio quanto in quella di cemento, segno che i processi di cattura consumerebbero più energia e richiederebbero apparecchiature più grandi. La barriera dettata dai costi e la mancanza di un adeguato sostegno politico sono il motivo per cui ad oggi sono pochissimi i progetti CCS su larga scala che operano nell’industria pesante, perlopiù per la CO2 relativamente concentrata emessa durante la produzione di idrogeno nelle raffinerie di petrolio.
Appurato ciò, la CCS cela il potenziale per svolgere un ruolo indiretto nella decarbonizzazione della siderurgia. La maggior parte dei progetti annunciati e relativi al c.d. “acciaio verde” si basa sull’utilizzo dell’idrogeno per ridurre direttamente il ferro (DRI) – al posto del coke negli altiforni – abbinato a forni elettrici ad arco che trasformano poi il ferro in acciaio. Se entrambi i processi (vale a dire la produzione di idrogeno attraverso l’elettrolisi e il funzionamento del forno ad arco) sono alimentati con energia elettrica pulita, il processo di produzione dell’acciaio si libera di fatto delle emissioni di carbonio. Tuttavia, l’impiego dell’idrogeno verde nella produzione di acciaio è una pratica ancora agli albori e risulta economicamente proibitiva senza un forte sostegno politico; inoltre, potrebbe limitarsi alle aree che godono di elettricità pulita a basso costo e ricchi giacimenti di ferro (p. es. Brasile, Australia)
È qui che entra in gioco la CCS
Decarbonizzando il gas naturale o l’idrogeno (“idrogeno blu”) prima del loro utilizzo per la riduzione del ferro, questa tecnologia è in grado di fornire una soluzione di decarbonizzazione per le acciaierie nelle regioni in cui le energie rinnovabili potrebbero non abbondare e/o in cui già sussistono le condizioni adatte per implementare la CCS (p. es. la giusta geologia per lo stoccaggio del carbonio, i prezzi economici del gas naturale). In tal senso, la CCS può svolgere un ruolo intermedio nella decarbonizzazione degli impianti siderurgici basati sui processi DRI, almeno fintantoché l’idrogeno verde non diventerà una soluzione economicamente più valida (con l’ammortamento dei costi degli elettrolizzatori).
Il costo è un ostacolo. Ma...
La CCS è una tecnologia che, per definizione, non ha un valore economico intrinseco (supponendo che la CO2 non venga utilizzata per scopi commerciali), se non le virtù ambientali associate alle mancate emissioni di carbonio. A differenza delle soluzioni di decarbonizzazione come le energie rinnovabili o l’idrogeno pulito, che offrono prodotti tangibili e commerciabili, la CCS rappresenta un mero servizio (di gestione dei rifiuti). Come già ampiamente citato, la mancanza di entrate finanziarie dalla CCS rimane il più grande ostacolo alla sua diffusione e tuttavia ciò può essere più rilevante in alcune regioni e/o settori rispetto ad altri. Per esempio, negli Stati Uniti, che vantano una storia decennale di cattura del carbonio, la diffusione di questa tecnologia è stata storicamente guidata dalla sua capacità di stimolare i giacimenti petroliferi esistenti a produrre più petrolio attraverso il recupero migliorato del petrolio (EOR). Per alleviare gli oneri finanziari in assenza di sbocchi di utilizzo, servirà una combinazione di meccanismi di supporto; lo status quo della tecnologia in Europa rappresenta forse l’esempio migliore per dimostrare quanto sopra.
Nell’ambito del Sistema europeo di scambio delle quote di emissione (EU-ETS), sono inclusi la maggior parte dei settori che presentano il più alto potenziale per l’impiego della CCS (p. es. il settore energetico, le raffinerie di petrolio, le industrie del cemento, del ferro e dell’acciaio). In questo caso, gli operatori possono utilizzare questa tecnologia per catturare e stoccare in modo permanente la CO2 e, a loro volta, rivendicare riduzioni equivalenti dei costi di conformità; in altre parole, sono tenute ad acquistare meno quote. Per quanto però i prezzi del carbonio dell’UE abbiano recentemente raggiunto livelli record di circa 100 euro/tCO2, ciò non basta per incentivare la diffusione della CCS e nessun progetto europeo a riguardo è pienamente supportato dal prezzo comunitario del carbonio.
Per far fronte a questo disallineamento, alcune giurisdizioni (p. es. Paesi Bassi) hanno introdotto un meccanismo di Contratti di Carbonio per Differenza (CCfD) per integrare il sostegno fornito nell’ambito dell’EU-ETS. In parole povere, un CCfD sovvenziona il differenziale di prezzo tra il prezzo delle quote (“prezzo di riferimento”) e i costi effettivi della CCS (il costo per l’abbattimento della CO2). Dal punto di vista dell’operatore, questo copre dal rischio di fluttuazione dei prezzi del carbonio e dovrebbe a sua volta creare una maggiore fiducia degli investitori nella performance finanziaria a lungo termine della tecnologia. Anche altri meccanismi non di mercato possono sostenere tale obiettivo: nell’UE, la recentemente annunciata Net Zero Industrial Act fissa un obiettivo annuale di 50Mt di capacità di stoccaggio entro il 2030 a livello continentale, che integra i suddetti programmi (mirati alla cattura). Nel Regno Unito, un meccanismo simile al CCfD – i contratti Industrial Carbon Capture (ICC) – si basa sul prezzo del carbonio e incentiva gli emettitori industriali a catturare la CO2. Negli Stati Uniti, a chi adotta questa tecnologia viene versata una sovvenzione, per ogni tonnellata di CO2 catturata e stoccata, secondo un modello di pagamento diretto (sotto forma di crediti d’imposta 45Q); in Canada sono invece i crediti d’imposta sugli investimenti ad essere alla base del modello commerciale della CCS.
Chi paga in assenza di un sostegno pubblico sufficiente?
Per quanto riguarda i settori industriali “hard-to-abate”, a meno che non siano in atto misure politiche forti e protettive, l’adozione della CCS porrebbe esplicitamente un operatore in una posizione di svantaggio sul mercato, soprattutto se i costi dovessero essere trasferiti agli utenti finali. Nel caso della produzione di cemento, acciaio e prodotti chimici, ciò si traduce in un aumento dei costi dei materiali. Le prime proiezioni dei costi mostrano che la CCS aumenterebbe i costi di produzione di almeno il 20-30 percento per l’“acciaio verde” e del 60-70 percento per il cemento. Poiché queste materie prime vengono scambiate a livello globale e in mercati altamente competitivi, un piccolo aumento del prezzo comporterebbe una perdita di quote di mercato per i produttori verdi, in quanto i consumatori sceglierebbero di passare a fornitori più economici (“marroni”). In questo caso, per tutelarsi da queste fughe di carbonio, quantomeno sul piano teorico, è possibile ricorrere a misure quali gli aggiustamenti delle frontiere del carbonio – che tuttavia devono ancora essere introdotte e la cui efficacia deve ancora essere valutata all’atto pratico.
Il lato positivo è che l’impiego di tecnologie pulite come la CCS nelle industrie di materiali “hard-to-abate” offre un vantaggio che si distingue da quella delle soluzioni pulite nel settore dell’energia (che si tratti di CCS su impianti alimentati da combustibili fossili o di energie rinnovabili), vale a dire la tracciabilità del prodotto. A differenza delle energie pulite, che alimentano un’unica rete e non sono di fatto tracciabili alla fonte, i materiali verdi possono essere ricondotti a produttori specifici, dove la certificazione e la definizione di standard ad hoc possono generare una domanda di prodotti verdi. Questo significa anche che il sostegno alla CCS non deve essere mirato solo a livello di progetto, ma può iniziare anche con i consumatori finali.
Esempi di meccanismi di “attrazione” dal lato della domanda possono essere gli appalti pubblici verdi e i mandati normativi ai grandi consumatori di materiali (p. es. le aziende edili e automobilistiche) per integrare i materiali verdi nelle linee di produzione. Grazie ad esse è possibile stimolare la domanda e, a sua volta, incentivare l’adozione di tecnologie pulite come la CCS. Puntare sull’uso a valle dei prodotti verdi significa anche che gli incrementi significativi dei costi dell’acciaio e del cemento menzionati in precedenza possono tradursi in sovrapprezzi trascurabili sui prodotti finali: il costo di un veicolo, per esempio, aumenta di meno dell’1 percento se realizzato con acciaio verde, così come la costruzione di un ponte se realizzato con acciaio e cemento più verdi. La domanda diventa quindi la seguente: il produttore e il suo cliente finale sono disposti a pagare quel sovrapprezzo?
Una questione di “come” e di “quando”
La recente tendenza di richiesta volontaria di materiali più ecologici da parte dell’industria automobilistica ed edile sembra far propendere per il “sì”. Le case automobilistiche sono particolarmente interessate a procurarsi acciai più ecologici come modo per mitigare le loro emissioni Scope 3. I produttori prevedono anche cambiamenti normativi che potrebbero rappresentare potenziali minacce per i modelli di business (p. es. l’introduzione del meccanismo CBAM e la graduale eliminazione delle quote gratuite nell’ambito dell’EU-ETS). Stante il sovrapprezzo stimato, l’acquisto di materiali verdi può risultare più conveniente rispetto al pagamento dei prezzi del carbonio, di cui non si prevede altro che un aumento nel corso del tempo. Detto questo, la sola domanda volontaria non basterà per avere una diffusione della CCS tale da contribuire in maniera significativa alla situazione climatica: servirà senz’altro una combinazione delle misure sopra descritte. Indipendentemente dagli ostacoli presenti, una cosa però è chiara: per i settori a più elevate emissioni e per cui gli abbattimenti del carbonio risultano più difficili, l’integrazione della CCS non è una questione di “se”, ma di “come” e “quando”.