Dibattito
L’impatto
L’Africa è estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici. Ma l'impatto varia a seconda della regione, dello Stato e persino all’interno del singolo Paese. Dalle diverse priorità territoriali alla peculiarità della transizione africana passando per il case study di Ladol al ruolo delle città: sei esperti a confronto
21 minL’Africa, nel suo complesso, è estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici, presenta fragilità ambientali e ha una capacità di adattamento limitata, nonostante il fatto che sia responsabile solo del 3-4 percento delle emissioni mondiali, pur ospitando il 15-17 percento della popolazione globale. Le conseguenze dei cambiamenti climatici in Africa sono e saranno di vasta portata. I cambiamenti climatici hanno ripercussioni, per esempio, sull’agricoltura, sul settore energetico e su quello dei minerali critici, e dunque sulle economie dei paesi africani, e incidono anche sulle società africane, aumentando il rischio di povertà, sfollamento e migrazione. Il clima influenza e influenzerà anche la politica africana, per esempio in termini di conflitti legati al clima e di relazioni estere.
Tutte queste vulnerabilità impatteranno sul dialogo con i paesi ricchi: in particolare, è da sottolineare quanto sia forte la percezione africana della presenza di un’ingiustizia climatica o di più ingiustizie climatiche, per cui il continente si trova a dover pagare per qualcosa che altri hanno fatto, ovvero i paesi del nord del mondo. E l’Africa chiede una transizione verde giusta in termini di provenienza dei finanziamenti, della velocità e delle tipologie di transizione che i suoi paesi stanno attraversando o attraverseranno.
di Giovanni Carbone, docente all’università di Milano responsabile del Programma africano dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale
Le priorità dei paesi africani
L’Africa è composta dai 55 paesi membri dell’African Union, tutti molto diversi tra loro. Così, mentre l’Africa esprime la voce comune sui cambiamenti climatici, sulle azioni per il clima e sulle priorità climatiche, la realtà a livello nazionale e persino regionale è molto diversa. Pertanto, è opportuno considerare ogni singolo paese africano secondo il suo specifico contesto: se guardiamo, ad esempio, alla vulnerabilità dei paesi africani, vediamo che gli impatti dei cambiamenti climatici variano secondo la regione, lo Stato e persino all’interno del singolo Paese.
Nel recente Africa Climate Summit tenutosi in settembre a Nairobi, l’African Union, insieme al governo keniota, ha messo a punto la Declaration of Nairobi (Dichiarazione di Nairobi), che esprime la posizione dell’Africa Group e riconosce quanto evidenziato dalla comunità scientifica nel recente Sixth Assessment Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che essenzialmente indica la vulnerabilità del continente africano e la vulnerabilità particolare di alcuni settori. Secondo l’Assessment Report, non c’è modo di raggiungere gli obiettivi necessari a contenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5°C.
La comunità scientifica mondiale e le Nazioni Unite sono concordi nell’indicare che non siamo al punto in cui dovremmo ormai essere, il che significa che la necessità di procedere all’adattamento e alla costruzione della resilienza all’impatto dei cambiamenti climatici è il punto centrale dell’agenda africana. In termini di finanza, l’Africa Group chiede che il 50 percento della finanza venga destinato all’adattamento, e questo si inserisce direttamente nella discussione su una transizione giusta, perché vogliamo garantire protezione agli africani, alle comunità, alle economie e ai mezzi di sussistenza dell’Africa contro gli impatti dei cambiamenti climatici. È la nostra priorità ed è il sostegno che chiediamo alla comunità internazionale e ai nostri partner. In questo quadro rientra anche il tema delle perdite e dei danni: gli impatti del cambiamento climatico, immediati e a lungo termine, sono già realtà e dobbiamo costruire capacità all’interno delle nostre comunità, e per farlo abbiamo bisogno di assistenza immediata.
Cicloni devastanti si abbattono su tutto il continente: è sotto gli occhi di tutti
La Declaration of Nairobi pone l’accento sulla riforma delle istituzioni finanziarie multilaterali, e sono molti i paesi che danno voce alle proprie necessità in questo senso. Ogni nazione ha la propria voce e le proprie richieste, ma essenzialmente l’Africa tutta chiede, con voce collettiva, una riforma dell’International Monetary Fund (IMF), della World Bank e degli istituti di Bretton Woods, della struttura della finanza per l’Africa, affinché i finanziamenti per il clima non si trasformino in altri debiti. La finanza è un elemento importantissimo della Dichiarazione di Nairobi, che sottolinea l’insufficienza qualitativa e quantitativa della finanza per il clima a sostegno dell’Africa. Dai dati emerge la richiesta di finanziamenti agevolati e di più sovvenzioni. Un punto molto importante è la richiesta dell’Africa di essere considerata un partner strategico: non vogliamo più essere visti solo come le vittime dei cambiamenti climatici, vogliamo anche essere visti in tutto il nostro valore. L’Africa è inoltre ricca di opportunità legate al clima: una composizione demografica in cui predominano i giovani, l’innovazione verde, i minerali strategici e altro ancora. Ma il fulcro di tutto devono essere giustizia ed equità. L’Africa è la terra più vulnerabile in relazione a un problema cui contribuisce solo in misura minima, ma vuole essere considerata un partner strategico ai fini della soluzione di tale problema. L’Africa s’impegna a creare un futuro a basse emissioni di carbonio e climaticamente resiliente, ma ha bisogno di molta assistenza per conseguire quest’obiettivo: capacità finanziaria, supporto tecnico e altro.
di Romy Chevallier, ricercatrice senior presso il South African Institute of International Affairs
Le peculiarità della transizione africana
La transizione energetica è un punto fondamentale dell’Agenda dell’African Union. Nel corso degli anni abbiamo capito che per compiere la transizione servono investimenti. I governi africani hanno messo a punto molte politiche per la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, politiche ben fatte ma la cui attuazione rappresenta una grande sfida. Ritengo via sia un gran divario tra politiche e pratica. Si fa tanto lavoro di ricerca, ma come lo si può tradurre in termini concreti? Osservando le economie locali europee, si nota che il loro motore sono le piccole imprese, e lo stesso accade in Cina: è un modello da replicare in Africa, perché limitarsi ai finanziamenti per lo sviluppo non basta, dato che una volta esauriti i fondi non si va oltre e la situazione ristagna. È questa oggi la sfida per l’Africa, superare lo scenario che vede i progetti crollare al termine del periodo di finanziamento predefinito. Dobbiamo spronare il settore privato: le aziende vivono di profitti e su questo dobbiamo puntare perché sviluppino soluzioni e innovazioni che soddisfino le esigenze degli utenti finali e vadano a beneficio delle comunità locali.
La questione va considerata da un punto di vista olistico. I nostri decisori politici hanno creato un ambiente positivo per il settore privato, un ambiente d’investimento favorevole, un ambiente di innovazione sociale che inizia dalle comunità locali per poi esportare e adattare ad altre comunità le tecnologie sviluppate. Per esempio, un’organizzazione ha realizzato dei pozzi presso delle comunità locali che soffrivano una forte carenza di acqua, ma si è poi accorta che la maggioranza delle donne continuava ad andare ad attingere l’acqua lontano, al fiume. Studiata la situazione, ci si è resi conto di come ciò fosse dovuto all’esigenza delle donne di alimentare così lo speciale legame sociale che si sviluppa tra loro nei viaggi verso il fiume alla ricerca di acqua: camminano e parlano, chiacchierano, si raccontano. È bello anche per loro avere l’acqua vicino a casa, nei pozzi, ma la casa è anche il luogo di mille faccende, e l’unico momento di svago e di incontro tra loro è proprio quel lungo cammino verso il fiume. Così, infine, si è capito che le donne non utilizzavano i pozzi perché veniva a mancare quel legame, quella connessione sociale. Bisogna quindi tenere conto anche della cultura locale, degli aspetti sociali e del contesto locale, e a questi adattare le tecnologie. Ritengo siano questi gli aspetti su cui concentrarsi per la transizione, per quella energetica e per ogni altro tipo di transizione.
di Anderson Kehbila, direttore dell’Africa Energy and Climate Change Programme presso il SEI di Stoccolma
Industrializzazione sostenibile: il caso LADOL
Non possiamo affidarci alla finanza per lo sviluppo, per molti motivi, e in particolare perché le definizioni di bancabilità non sono compatibili con il tipo di industrializzazione che serve all’Africa. Il case study di LADOL è un esempio di come si possa sviluppare in modo sostenibile il tessuto industriale grazie a finanziamenti privati. Abbiamo trasformato un terreno dismesso e paludoso in una base di supporto logistico industriale; i nostri clienti sono per la maggioranza società dell’oil& gas, per le quali ci occupiamo della movimentazione di materiali e di personale, riparazioni e costruzioni. Abbiamo raccolto privatamente i quasi 500 milioni investiti in LADOL fino ad oggi. I siti chiave di LADOL sono il punto di attracco per le navi e la nuova banchina costruita al porto di Apapa a Lagos all’inizio degli anni Settanta. A quel periodo è seguito un vuoto di trent’anni durante cui si sono costruite pochissime infrastrutture portuali in quello che pure è il porto più grande del paese più grande dell’Africa occidentale, un porto che riceve il 70 percento delle importazioni. Lavoriamo a strutture d’importanza cruciale e il nostro lavoro è stato reso possibile proprio perché funzionale alle esportazioni di materie prime.
In LADOL abbiamo elaborato un piano generale in collaborazione con esperti nigeriani, britannici, tecnici danesi, le società Salvo e Nereus, che ci consentirà di raggiungere le zero emissioni nette entro il 2035. Un elemento essenziale del nostro sviluppo è che negli ultimi vent’anni, a partire dal 2004, abbiamo avuto una serie di stakeholder impegnati e seriamente concentrati sul lungo termine. Per loro, il lungo termine significa capire come abilitare gli aspetti chiave dell’industrializzazione in Nigeria e come costruire un ecosistema sostenibile che sostenga i progetti e consenta le attività a valle. Nella prima fase del nostro sviluppo ci siamo adoperati per attrarre le centinaia di milioni di dollari di cui avevamo bisogno per costruire la zona economica speciale nell’area dismessa. Nella fase successiva, LADOL si è concentrata sulle aziende dei settori non-oil&gas e sulla costruzione del resto della zona economica speciale. Il tutto con fondi privati, quindi niente istituzioni finanziarie per lo sviluppo o simili, e un esempio importante di business sostenibile. Ho avuto il privilegio di far parte della Business and Sustainable Development Commission (BSDC, Commissione per le imprese e lo sviluppo sostenibile) delle Nazioni Unite, che ha condotto uno studio da cui è emerso che i settori della sostenibilità offrono opportunità di business per un valore di dodicimila miliardi di dollari. Stiamo inoltre dotando la nostra zona franca di un’infrastruttura di governance sostenibile e stiamo costruendo infrastrutture climaticamente intelligenti. Sono questi i pilastri del nostro percorso verso lo zero netto. Inoltre, guardando alle diverse aree che offrono opportunità di business e di sostenibilità significative, abbiamo mappato le opportunità di LADOL insieme ai nostri partner e abbiamo individuato le aree di business su cui concentrarci per creare dei cluster in cui le imprese possano prosperare.
di Amy Jadesimi, CEO della Nigerian Sustainable Industrial Special Economic Zone
Impatto del cambiamento climatico sulla capacità d’azione dello Stato
Quando si vive una situazione di siccità come quella verificatasi nel Corno d’Africa nel 2020 e ancora oggi in corso, risulta subito evidente quanti cambiamenti tale situazione determini, per chi ne è colpito, in termini di mezzi di sussistenza: la siccità ha lasciato circa venti milioni di persone in condizioni di grave insicurezza alimentare e la malnutrizione ha colpito anche i bambini. Pensavamo di aver fatto molti progressi verso l’obiettivo della sicurezza alimentare, ma di fatto siamo tornati indietro, siamo tornati a dover gestire la malnutrizione, anche quella del bestiame, nostra principale fonte di sostentamento. La siccità ha portato alla perdita reale di più di dieci milioni di capi di bestiame, mettendo a rischio il sostentamento di moltissime persone e ha provocato lo sfollamento di più di 2,7 milioni di abitanti. Sfollare significa anche doversi allontanare dal proprio ambiente culturale e allentare legami familiari consolidatisi nel corso del tempo, soprattutto quando lo sfollamento è di grande entità. In questo periodo di siccità, la produttività culturale del Kenya è diminuita in modo impressionante.
Durante il Covid, quando abbiamo dovuto chiuderci nel lockdown, a farci da salvagente è stata proprio la cultura, un settore cruciale che in quel frangente è come rifiorito, ma subito dopo, nel 2021, quando è arrivata la siccità, il settore culturale ha subito una forte contrazione. E la contrazione del settore culturale comporta sempre un rallentamento importante della crescita del PIL, cui normalmente contribuisce per circa un terzo. Nella siccità si spera arrivino presto le piogge, e poi, quando le piogge arrivano, ci si chiede: ma perché piove tanto? Il bestiame sopravvissuto alla siccità viene travolto da alluvioni improvvise ed ecco altra devastazione. Questa è la ciclicità che viviamo. In Kenya, per esempio, dove oltre l’80 percento del territorio è arido o semi-arido, il governo si trova spesso a dover aiutare le comunità a ripristinare i mezzi di sussistenza. Quando c’è siccità e forte insicurezza alimentare, il governo importa derrate alimentari, ma sappiamo bene che cosa succede in questi casi: tra le varie, diminuiscono i dazi d’importazione, cosa che priva il governo di entrate che avrebbe utilizzato per altre attività, e allora si ricorre ai sussidi, agli strumenti di protezione sociale, e tutto ciò va incidere sul bilancio dello stato. Inoltre, quando l’agricoltura non funziona, ne risente anche il settore manifatturiero, che sull’agricoltura in gran parte si basa.
L’agricoltura è di fatto la principale fonte di materie prime per la produzione, e se non funziona diminuiscono le entrate fiscali e ne risente il bilancio statale. E ancora, non è tutto: la siccità comporta spesso anche interruzioni nella fornitura di energia e si deve ricorrere al carbone, barcamenandosi tra la necessità di ridurre le emissioni e quella di garantire una sufficiente fornitura di energia. Sono tutti fattori che ripercuotono sullo Stato e sul supporto che può dare alla popolazione; questo è evidente quando si guarda ai contributi determinati a livello nazionale (NDC, Nationally Determined Contribution) e agli impegni dei singoli paesi: è molto raro che un paese africano possa rendere disponibile il cento per cento delle risorse finanziarie necessarie alla piena attuazione dei propri NDC. In conclusione, dunque, i cambiamenti climatici lasciano agli stati africani pochissimo spazio di manovra per attuare i propri impegni per il clima.
di Rose Ngugi, Kenya Institute for Public Policy Research and Analysis
Il ruolo delle città
La risposta al cambiamento climatico più appropriata è la risposta policentrica, cioè una risposta che consideri tutti i diversi livelli e in particolare quello locale, che è il più rilevante ai fini della giustizia climatica: è il livello delle comunità vulnerabili all’impatto dei cambiamenti climatici e alle conseguenze indesiderate della politica per il clima. Perché anche le politiche concepite per mitigare i cambiamenti climatici possono avere conseguenze indesiderate. È quindi molto importante avere una strategia anche per il livello locale e le città, coinvolgendo il più possibile le autorità locali e ogni ente che si occupi delle comunità locali. Quando si parla della voce delle città africane e, in generale, della voce delle città nell’azione mondiale per il clima, bisogna riconoscere che ogni città ha la propria voce, anche se è complicato capire come la sua voce si traduca concretamente in azione nel contesto della politica mondiale per il clima. Certamente le città si stanno ritagliando uno spazio proprio per partecipare alla definizione della politica mondiale per il clima, ma si adoperano anche per coordinare le proprie azioni, promuovere l’apprendimento reciproco e condurre esperimenti coordinati per mettere in atto le proprie specifiche politiche per il clima. È quello che avviene in network come il C40 Cities e in molti altri.
Le ricerche empiriche finora condotte dimostrano tuttavia che anche nei network di città non è sempre facile per le città africane far sentire distintamente la propria voce, per una serie di motivi. Innanzitutto, questi network non sono sempre e necessariamente democratici al loro interno, avendo spesso una gerarchia interna che rispecchia la gerarchia finanziaria tra le diverse città, e questo per molte città significa problemi nell’attivazione delle risorse. Inoltre, non tutti i network di città sono uguali: per esempio, alcuni attraggono e contano un maggior numero di città africane rispetto ad altri. Tra questi c’è il Global Parliament of Mayors, che riunisce i sindaci di varie città del mondo; l’ultima volta che ho verificato contava quarantaquattro sindaci; non è propriamente un network quanto piuttosto un ente in cui ogni membro ha pari diritto di voto. Circa il 50 percento dei membri del Global Parliament of Mayors rappresenta città africane, di dimensioni medie o piccole: questo network è uno strumento eccellente per far sentire la voce delle città africane. In generale, è importante inserirsi in network democratici che si propongono di promuovere azioni coordinate a beneficio delle comunità locali, cosa che dovrebbe significare un maggior numero di progetti orientati all’adattamento e alla giustizia climatici. In conclusione: il fine non è tanto aver voce in tema di azioni politiche quanto aver voce in tema di progetti concreti sul campo.
di Elena De Nictolis, Università Luiss