II Killer silenziosodi Massimo Zaurrini
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Inquinamento

II Killer silenzioso

di Massimo Zaurrini

L’inquinamento atmosferico interno, causato dalla combustione delle biomasse per cucinare, rappresenta una delle maggiori minacce alla salute pubblica e incide pesantemente sull’ambiente. Serve un maggior impegno internazionale perché la popolazione possa accedere al clean cooking

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Qualcuno lo chiama il killer silenzioso. Altri parlano di “silent suffocation”. Altri ancora si spingono fino a definirlo lo “strangolatore invisibile”. L’household air pollution, noto anche con il suo acronimo in inglese HAP, è considerato oggi una delle maggiori minacce alla salute pubblica planetaria. Si tratta dell’esposizione delle persone all’inquinamento atmosferico interno provocato dalla combustione di biomasse. In parole più semplici, non è altro che l’inquinamento dell’aria di casa provocato dal fatto che per cucinare e per riscaldarsi si accendono fuochi alimentati da legna e carbone all’interno di spazi spesso ristretti e con scarsa o nulla aerazione. Non dovrebbe stupire che i paesi economicamente più fragili siano quelli maggiormente interessati dal fenomeno. Tantomeno dovrebbe stupire che il killer silenzioso prediliga come vittime donne e bambini, che in casa passano la maggior parte del tempo. Il fenomeno ha una portata globale e riguarda, secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aggiornati al 2021, 2,6 miliardi di persone nel mondo. “Ogni anno - sostiene l’OMS - quasi 4 milioni di persone muoiono prematuramente per malattie attribuibili all’inquinamento atmosferico domestico dovuto a pratiche di cottura inefficienti che utilizzano stufe inquinanti abbinate a combustibili solidi e cherosene”. Sempre l’OMS certifica che “quasi la metà dei decessi per polmonite tra i bambini di età inferiore ai 5 anni è dovuta all’inalazione del particolato (fuliggine) causato dall’inquinamento atmosferico domestico” e che l’HAP è responsabile di malattie non trasmissibili tra cui ictus, cardiopatia ischemica, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e cancro ai polmoni.

L’incidenza dell’HAP in Africa

Se il fenomeno interessa tutto il pianeta, l’incidenza dell’HAP in Africa è più alta che in qualsiasi altra parte del mondo. A causa dei bassi livelli di accesso all’energia moderna soprattutto nelle aree rurali del continente, sono tante le persone che bruciano ancora legna e altre biomasse per usi domestici. In moltissime di queste zone ma anche nelle aree povere e negli insediamenti informali delle principali città, il metodo delle ‘tre pietre’ rimane quello prevalente per provvedere alla preparazione del cibo, ovvero posizionare tre grandi pietre una accanto all’altra per creare un rialzo su cui appoggiare la pentola, al di sotto della quale si accenderà un piccolo fuoco. Quasi due terzi dei bambini in Africa (circa 350 milioni) vivono in case in cui i combustibili solidi vengono utilizzati per cucinare e riscaldare. Benché dal 1990 i decessi per inquinamento dell’aria interna siano diminuiti di circa il 15 percento, il numero complessivo delle morti per HAP in Africa è ancora molto elevato e nel 2018 è stato fissato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) a oltre 500.000 persone. Si tratta di un dato stimato e che secondo alcuni deve essere rivisto al rialzo. È il caso per esempio di un recente studio pubblicato nella prestigiosa rivista medica The Lancet. Secondo questo studio, nel 2019 le morti legate all’inquinamento domestico nel continente sono state 697.000, un dato che rappresenta il 30 percento di quelle registrate in tutto il mondo.

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Dopo essere stati a lungo ai margini del dibattito internazionale, dal 2015 il fenomeno dell’HAP e, con esso, la necessità di sostenere una transizione verso il cosiddetto ‘clean cooking’ (cioè sistemi di cottura del cibo e forme di riscaldamento domestico più puliti) sono da qualche anno al centro dell’attenzione degli organismi internazionali e qualche progresso in questa direzione, soprattutto nel numero delle morti da HAP, è stato registrato. Ma si tratta di passi in avanti parziali. Secondo l’ultima revisione dello stato di raggiungimento dell’obiettivo di sostenibilità (SDG) 7, quello relativo all’accesso all’energia, nella sola Africa subsahariana non solo non sono stati segnati miglioramenti, ma un tasso di accesso stagnante combinato con una rapida crescita della popolazione ha portato a un aumento del numero di persone ancora legate a forme di cottura tradizionali, passate da circa 750 milioni nel 2010 a 890 milioni nel 2018. Il rapporto - realizzato da un gruppo di organizzazioni tra cui la IEA, l’OMS e il Gruppo della Banca Mondiale - evidenzia come il numero più alto di persone senza accesso a combustibili e tecnologie pulite risieda ora nell’Africa subsahariana, anziché nell’Asia orientale e nel Sud-est asiatico. “Se le tendenze osservate in termini di accesso e popolazione continuano, si può stimare che nel 2030 l’Africa subsahariana avrà il maggiore deficit di accesso, pari a circa il 44 percento della popolazione totale della regione. Ciò rappresenta una sostanziale ridistribuzione geografica del deficit di accesso globale e dei relativi oneri sanitari, economici e sociali. Le politiche future dovrebbero tenere conto di queste tendenze”, afferma il rapporto.

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All’interno dei 20 paesi “con deficit di accesso” identificati dall’agenzia, ve ne sono sei dove la quota di popolazione che ha accesso a combustibili puliti è pari solo al 5 percento o meno del totale. E questi paesi si trovano tutti in Africa: Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Madagascar, Mozambico, Uganda e Tanzania. Secondo un più recente studio di Banca Mondiale, lo State of Access to Modern Energy Cooking Services, realizzato utilizzando una metodologia ampliata per fornire una misurazione più completa dell’accesso all’energia domestica e delle soluzioni di cottura, il tasso di accesso alle moderne fonti di energia per cucinare è solo del 10 percento nell’Africa subsahariana, a fronte di un 36 percento in Asia orientale e del 56 percento registrato in America Latina e Caraibi.

Finanziamenti in calo

“La mancanza di progressi nei metodi di cottura più puliti sta costando al mondo più di 2400 miliardi di dollari ogni anno a causa degli impatti negativi sulla salute, sul clima e sull’uguaglianza di genere. Le donne sopportano una quota sproporzionata di questo costo sotto forma di cattiva salute e sicurezza, nonché perdita di produttività”, ha affermato Makhtar Diop, vicepresidente per le infrastrutture della Banca mondiale. “Questo bilancio potrebbe aumentare nella pandemia in corso poiché l’inquinamento atmosferico domestico, derivante dall’uso di combustibili e stufe altamente inquinanti, può rendere le popolazioni esposte più suscettibili al Covid-19 e ad altre malattie respiratorie”.

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Le promesse di finanziamento in questo ambito da parte dei partner di sviluppo e del settore privato sono recentemente scese da 120 milioni di dollari a 32 milioni di dollari. Lo State of Access to Modern Energy Cooking Services stima una cifra di 150 miliardi di dollari all’anno per avere l’accesso universale a moderni servizi di cottura entro il 2030. Di questo importo, circa 39 miliardi di dollari devono essere erogati in finanziamenti pubblici per garantire che le nuove soluzioni siano convenienti anche per le fasce più povere, mentre 11 miliardi di dollari servono al settore privato per installare infrastrutture a valle, come le reti di distribuzione, necessarie per il funzionamento dei mercati collegati a queste soluzioni. I restanti cento miliardi di dollari proverrebbero dagli acquisti domestici di stufe e combustibili. Uno scenario meno ambizioso per avere una cucina migliore entro il 2030 richiede 10 miliardi di dollari all’anno, di cui 6 miliardi approntati dal settore pubblico per colmare il divario di accessibilità economica e il resto costituito dalle spese che dovrebbero sostenere le famiglie.

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La strada verso il clean cooking appare ancora lunga e piena di ostacoli. Il problema principale sembra essere la mancanza di valide alternative ai sistemi di cottura tradizionali. Lo studio delle tecnologie stand-alone, ovvero le cucine solari o a biogas, è costoso e ancora allo stadio embrionale. I programmi di sostituzione del sistema delle tre pietre con analoghi fornelletti a pellet o biomasse finora sono stati lasciati all’intraprendenza di organizzazioni non governative internazionali e/o locali, ma sembrano non riuscire a ritagliarsi uno spazio di mercato. Emblematico il caso di Inyenyeri, impresa sociale che si era posta l’obiettivo di fornire alle famiglie che utilizzano le tre pietre per cucinare un fornelletto/stufetta ad alte prestazioni e bassissimi consumi. Una realtà, quella di Inyenyeri, partita dall’idea di un gruppo di imprenditori sociali statunitensi che si era sviluppata in Rwanda grazie soprattutto a donazioni di organizzazioni internazionali e fondazioni, attirando nelle sue prime fasi di attività investimenti sotto forma di crowd-funding. Il suo stesso modello di business come impresa sociale era caratterizzato sin dall’inizio da uno staff estremamente allargato, concentrato in particolare nelle attività di commercializzazione del prodotto e di promozione dell’iniziativa tra la popolazione ruandese.

Proprio questa scelta, sulla base di quel che si deduce a partire dai comunicati aziendali con i quali si è annunciato nell’aprile 2020 la messa in liquidazione della società, ha rappresentato il limite principale allo scaling-up dell’azienda, che ha ricevuto un colpo definitivo con la diminuzione dei flussi di investimento verso il continente africano che, a seguito della diffusione del Covid-19, ha portato a un crollo del flusso di liquidità per il pagamento delle spese correnti e alla conseguente liquidazione aziendale.

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In particolare la scelta di mettere gratuitamente a disposizione dei propri clienti le stufette/cucinini e prediligere uno schema pay-as-you-consume sulla base del pellet utilizzato dai clienti stessi si è rivelata inadatta allo sviluppo aziendale senza riuscire a superare i programmi pilota realizzati nei campi profughi e sostenuti finanziariamente dalle agenzie delle Nazioni Unite. Le difficoltà incontrate da Inyenyeri, come quelle di esperienze simili se non analoghe, si sommano ai problemi logistici e all’instabile quadro normativo in ambito energetico, nonché ad una coscienza popolare diffidente, come lamentato da altri esperimenti tentati in questi anni.

L’alternativa del GPL

L’alternativa più comune all’utilizzo di legna e/o carbone per cucinare al momento sembra essere rappresentata dal combustibile fossile GPL, che in Africa è utilizzato dal 70 percento della popolazione. Secondo uno studio condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il GPL è l’unico idrocarburo le cui emissioni rientrano nei parametri di inquinamento indoor stabiliti. Le complicazioni del GPL però sono molteplici. Innanzitutto la diffusione di questo combustibile dipende dagli incentivi statali, che non sono sempre costanti, e in secondo luogo occorre tenere in considerazione la delicatezza della sua gestione nelle fasi di trasporto e consumo.

In realtà, soprattutto per quanto riguarda le aree urbane, già da qualche anno si stanno sperimentando progetti pilota per la creazione di reti di distribuzione di gas in quei paesi che ne hanno disponibilità, magari laddove la produzione è associata alle attività di estrazione di idrocarburi. Altre ipotesi prevedono l’utilizzo crescente dal gas naturale liquefatto (GNL) anche per rispondere a questa necessità. Un’ipotesi, quest’ultima, che fa perno sulla crescita esponenziale dell’utilizzo di GNL prevista in Africa.

L’obiettivo di clean cooking in Africa subsahariana continua ad essere al centro di molti tavoli di discussione in cui appaiono coinvolti numerosi attori, privati e istituzionali, che cooperano per mezzo di strumenti di blended finance. Le Nazioni Unite e l’Agenzia Internazionale per l’Energia finanziano diversi progetti e promuovono soluzioni per cucinare in modo “pulito”. Significativo è anche l’impegno della Banca Mondiale, le cui principali iniziative sono l’Africa Clean Cooking Energy Solutions (ACCES) e il Programma di assistenza alla gestione del settore energetico (ESMAP). Anche la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) ha messo a punto un suo New Deal of Energy e la strategia Africa 50 per garantire l’accesso universale all’elettricità agli africani entro il 2050.

la fotoMgahinga National Park, Uganda. In alcune zone lo sfruttamento delle foreste da parte delle popolazioni è la prima causa di deforestazione.
 

Il fenomeno dell’HAP, oltre al dramma sociale che rappresenta, con le sue cause scatenanti incide pesantemente anche sull’ambiente. Sono in molti infatti gli studi che hanno cominciato a considerare con attenzione anche il danno ambientale provocato dall’assidua deforestazione in atto e dell’alto tasso di emissioni di CO2. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite nel 2050 l’Africa sarà il continente con il più alto tasso di crescita demografica e questo comporterà un aumento esponenziale di domanda di energia da parte della popolazione, quindi un’ulteriore pressione sulle risorse boschive e forestali del continente. “La questione del clean cooking è tutt’altro che secondaria se affrontiamo il tema della deforestazione. Per quanto riguarda l’Uganda, alcuni studi che abbiamo fatto realizzare hanno evidenziato come proprio l’insistenza sulle foreste delle popolazioni locali con lo scopo di procurarsi la legna necessaria per scaldarsi o cucinare, sia, in alcune zone del paese, la principale causa di deforestazione” ha sottolineato, in una recente conversazione durante una sua visita in Italia, la ministra dell’Energia dell’Uganda Ruth Nankabirwa. Appare dunque urgente e necessario implementare le attività di elettrificazione, prestando più attenzione al settore domestico per “assicurare l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni”, come recita l’obiettivo 7 dell’Agenda 2030, anche alle donne e ai bambini. Solo così si potrà fermare il killer invisibile.